Sermone del 15 ottobre 2023

Fame e sete della parola di Dio

di Fabrizio Oppo

E anche se l’immagine di Dio venisse a mancare, la sua parola però resterebbe viva, e il suo desiderio. Verrebbe meno la visione, non verrebbe meno l’ascolto. E dell’ascolto di questa parola dobbiamo oggi essere testimoni come il profeta Amos nei suoi giorni lontani.

Le parole che abbiamo letto dal libro del profeta Amos (8, 11-12) ruotano soprattutto su due enunciati. Primo, che il Signore manda sulla nostra terra la fame e la sete della sua parola. Secondo, che gli abitanti del paese solcheranno i mari da ogni direzione, e correranno per l’urgenza di ascoltare la parola del Signore, mossi dal desiderio di raggiungerla ma, dice il profeta, non la troveranno.

Letto oggi, il brano di Amos sembra problematico. Sembra smentito. Infatti, è comune la constatazione che il mondo non cerca più la parola di Dio, che la fede non riguarda più la maggioranza delle persone. Si indica a questo riguardo, il diminuire della presenza di fedeli ai culti della comunità, il venir meno della popolazione delle chiese e delle vocazioni ministeriali.

Nelle nostre chiese constatiamo che la maggioranza dei più giovani, quando da adolescenti raggiungono l’età della giovinezza matura, lasciano le comunità religiose di appartenenza e le abbandonano.

Generalmente si spiega che la causa di questi abbandoni stia nella progressiva laicizzazione del mondo moderno, nella sua secolarizzazione.

Questa convinzione ha certo molto di vero. Il mondo adulto, si dice, diventando maturo ha sempre meno bisogno di Dio. Si è stancato del discorso religioso.

Ma è possibile avanzare anche un’altra spiegazione. Il pastore e teologo Paolo Ricca, per esempio, dice di no, ritiene cioè che le persone non si siano stancate di udire la parola di Dio, al contrario si sono stancate di non udirla. Le persone hanno perso fiducia nelle chiese perché in esse sembra non risuonare più la parola di Dio. Nelle chiese si parla della struttura ecclesiastica, si parla di atteggiamenti religiosi e devoti, si parla di noi in quanto membri della nostra chiesa. Si parla di tutto questo ma si parla sempre meno dell’esperienza sorprendente e sconvolgente dell’ascolto della parola di Dio.

Io credo che ci sia molto di vero in questa constatazione. È vero che nelle chiese si predica la Bibbia ma è possibile che la predicazione sia poco incisiva e poco interessante, o stanca, o scontata.

Quali possono essere le ragioni? Dove si possono trovare i motivi che rendono la predicazione della parola di Dio poco entusiasmante, poco coinvolgente e poco sorprendente?

Io credo che uno dei motivi sia il fatto che la parola di Dio è espressa con un linguaggio troppo religioso: ed è quindi nella religione stessa, anche se sembra paradossale, che la parola di Dio si illanguidisce e viene meno, perde il suo carattere di sorpresa e di sconvolgimento. E questo perché proclamiamo la fede in un Dio della gloria ma forse non ne comprendiamo il significato. Infatti, l’espressione Dio di Gloria ripetuta nei nostri culti è tradotta nei nostri pensieri come Dio della forza, Dio dei cieli, l’altissimo.

Una luce accecante di gloria, eterna, stabile, ferma.

E ci dimentichiamo che la gloria di Dio è espressa nei vangeli e in Paolo come l’abbassamento nella croce. Non una elevazione ma un abbassamento. (Il nostro amico Ottavio Di Grazia due giorni fa, al convegno sull’ecclesiologia battista, ha parlato di Dio che ama l’umanità con passione, una passione che arriva al patire di Gesù durante la sua passione).

Ecco, quindi, una possibile causa dell’inaridirsi della vita nelle nostre chiese. Mentre l’ascolto della Parola è prodotto di fame e sete della parola, cioè da una passione per essa, l’annuncio della Parola nelle nostre predicazioni è invece una sicurezza stabile e ferma di una gloria eterna, forse elevata ma esangue e immobile.

Vi cito le parole di uno scrittore famoso, Victor Hugo, che in una sua opera poetica assume toni da profeta biblico osando, come i profeti della Bibbia, contestare la luce accecante di questa Gloria di Dio. Victor Hugo, quando scrisse questi versi si trovava in uno stato di profondo dolore a causa della perdita della sua amatissima figlia Léopoldine.

Dice il poeta che si rivolge al Signore:

Hai mai pensato che l’uomo, vana ombra,
Ahimè! perde la sua umanità
A vedere troppo questo splendore oscuro
Che chiamiamo la verità?

O Dio! Davvero hai potuto credere
Che preferissi, sotto i cieli, I
l raggio spaventoso della tua gloria
Alla dolce luce dei suoi occhi?

“Ma come hai potuto solo immaginare che io potessi preferire la tua gloria spaventosa alla luce dolce dello sguardo di mia figlia”.

Noi certo pensiamo che non sia così e potremmo dire al poeta “caro fratello, Dio non vorrebbe mai questo”. Eppure, il poeta citava il modo comune di intendere la gloria di Dio nelle sue chiese.

E non solo nelle chiese cristiane. Leggo un breve testo del profeta Isaia che sembra parallelo al testo di Victor Hugo:

15 Guarda dal cielo, e osserva,
dalla tua abitazione santa e gloriosa.
Dove sono il tuo zelo, i tuoi atti potenti?
Il fremito delle tue viscere e le tue compassioni
non si fanno più sentire verso di me.

17 SIGNORE, perché ci fai peregrinare lontano dalle tue vie
e rendi duro il nostro cuore perché non ti tema?
Ritorna, per amor dei tuoi servi,
delle tribù della tua eredità!

19 oh squarciassi tu i cieli e discendessi!
Davanti a te i monti tremerebbero
Isaia 63,15.17.19

O Signore, dice Isaia, Tu stai nei luoghi altissimi ma da quelle lontananze non si sentono i fremiti delle tue viscere, le tue compassioni. Sei troppo lontano. Scendi. Così noi e tutta la natura saremo sconvolti.

Può capitare, e capita in un mondo diventato adulto, che vuole risolvere i suoi problemi senza presupposti religiosi, che queste chiese religiose e devozionali che inneggiano alla gloria di Dio, invochino una luce così forte da oscurare l’umile e povero ascolto della parola. Qui l’alternativa è davvero radicale: o la religione o la parola di Dio. Sono due cose diverse.

Se sono vere le parole di Amos, cioè se è vero che in tutto il mondo cresce la fame e sete della parola di Dio, e se questa parola non può essere quel comfort spirituale che spesso è offerto dalle chiese e dalle agenzie spirituali, dobbiamo cercare qui, tra noi, anche fuori dalle chiese i luoghi dove questa parola è cercata e richiesta con urgenza e speranza.

Dobbiamo cercare quelle situazioni dove la vita è desiderata, sperata, creduta, ma dove le necessità, la violenza, la guerra, la prepotenza la schiacciano.

Pensiamo ai migranti che rischiano tutto per raggiungere quella vita che è la nostra vita terrena e che essi non hanno. E quindi la cercano disperatamente, la sperano, la pregano. Non sentiamo qui riecheggiare, nella loro speranza, quel bisogno di un parola di cui parlava il profeta Amos?

Amos parlava di parola di Dio, ma noi siamo sicuri che qualunque parola di speranza di vita, in qualsiasi modo pronunciata, che abbia o non abbia Dio come protagonista, non può essere separata dai disegni e dall’amore di Dio.

Quando il mondo è tutto attraversato dalla ricerca di parole di pace e di vita, noi credenti sappiamo che queste parole, dette e agite, sono certamente la parola di Dio. Anche se Dio non è esplicitamente invocato.

Quando c’è desiderio di pane e acqua, e pane e acqua non ci sono, c’è desiderio della parola di Dio, anche se Dio non è invocato,

quando c’è il desiderio di una persona da amare, liberamente e senza sensi di colpa e rimprovero che a volte si intromettono per impedirlo, quando c’è questo desiderio di amore c’è desiderio della Parola di Dio,

quando c’è il desiderio di un lavoro che possa dare alla persona la sua dignità, la sua autonomia e la libertà delle sue scelte (pensiamo alla dignità di chi può dire: io lavoro, partecipo con il lavoro alla cooperazione sciale, sono io che posso dare il mio contributo al benessere di tutti), quando c’è questo desiderio c’è la parola di Dio,

quando c’è il desiderio di sviluppare la propria vita così come si è, individuando le proprie specifiche potenzialità e il proprio futuro, e qualcosa o qualcuno lo impedisce perché ha il potere di farlo, in quel desiderio c’è fame e sete della parola di Dio.

In questi momenti difficili e di impedimento c’è un forte desiderio di vita e di senso, che noi credenti interpretiamo come fame e sete della parola di Dio. Se non stiamo vicini e coinvolti in questi forti desideri di vita vissuta nella gioia e nella completezza, come potremmo desiderare ardentemente la parola di Dio?

Non perdiamoci di coraggio se capita che la fame e la sete della parola avvengono oggi per lo più nei momenti di angoscia e di disperazione. Con coraggio dobbiamo invece riconoscere che non c’è speranza se non partecipando alla vita di chi è senza speranza. La speranza non è un principio già pronto, limpido e puro, da cui partire per organizzare bene la nostra vita. La speranza nasce dal grido di chi è oppresso, ed è una speranza piena di fame e di sete della parola di consolazione.

All’inizio di questo sermone ci siamo chiesti se lo scarso successo della nostra predicazione potesse derivare dal processo di secolarizzazione e laicizzazione del mondo. Abbiamo visto che il problema è più profondo. Fratelli e sorelle, rendiamoci conto che anche se viviamo in un mondo secolarizzato e laicizzato, privo di religione e anche abitato da persone che non hanno la fede o non vogliono fare più riferimento a Dio, non per questo si è spenta la fame e la sete della parola di Dio. Per noi credenti la lacerazione degli umiliati e offesi di questo mondo, soprattutto in momenti di dolore come questi che stiamo attraversando, questa lacerazione è fame e sete della parola di Dio.

E anche se l’immagine di Dio venisse a mancare, la sua parola però resterebbe viva, e il suo desiderio. Verrebbe meno la visione, non verrebbe meno l’ascolto. E dell’ascolto di questa parola dobbiamo oggi essere testimoni come il profeta Amos nei suoi giorni lontani.

Amen

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