di Fabrizio Oppo
Ho trascorso gli ultimi due anni lasciando la mia residenza e raggiungendo la casa di famiglia dove mia madre, anziana e sofferente, aveva bisogno di assistenza e di continuo conforto. Fino alla conclusione della sua vita questi ultimi anni sono stati per lei un periodo di progressivo declino e venir meno. Se, anche nella bibbia, la morte in vecchiaia avveniva in “sazietà di anni”, per la storia di mia madre la morte è giunta nella stanchezza degli anni.
Mia mamma è stata per me la prima testimone del vangelo. È stata lei che mi ha raccontato, per prima, la storia di Gesù, che ancora oggi è per me l’aria che respiro. Me l’aveva comunicata con le parole e ho imparato ad aver fede nell’ascolto e nelle articolazioni di quelle parole. Parole che verso la fine, al culmine della sua progressiva afasia, le sono mancate facendo cessare la comunicazione tra noi.
Per la mia fede, nella quale l’intrico di confessione e di speranza è sempre stato composto in un legame forte e robusto, l’esperienza di questa fine è stata come una smentita. Ho dovuto fare riecheggiare in me la Parola ma nella assenza di un forte accompagnamento emotivo, in tono minore, nel vuoto e nel disincanto. Senza quella intensità che la fede assume almeno nei momenti intimi e nascosti del cuore.
Non si è trattato di una questione privata. Ogni giorno, infatti, si spezzava un filo di quella tessitura che la teneva legata a me e che generava conoscenze, rapporti umani, affetti e lavoro. Il mondo universale della vita. Non c’era solo lei e nemmeno solo io, ma tutto il mondo della vita che prendeva posto in quell’ordito.
Io, da uomo di fede, pregavo, ma mi sentivo incapace. Non sono molto spiritualista e non vedevo quella morte all’interno di uno schema consolatorio. Perciò in quei momenti di congedo non sentivo risuonare le promesse di un conforto spirituale. La consolazione e il conforto dello spirito sono cose meravigliose ma sono come una brezza di felicità che cerca di aprire uno spiraglio di forza all’interno di noi. Ma neppure, al contrario, vivevo la violenza di una tragedia. Consolazione e tragedia hanno bisogno di una tempra forte, e invece io volevo condividere la fragilità di mia mamma. Perciò pregando trovavo compagnia nelle parole del salmo 39 che in forma di preghiera esprimono uno sconforto che non è superato.
Signore, correggendo l’uomo tu distruggi come tarlo quel che ha di più caro.
(Qui è il Signore che distrugge quel che abbiamo di più caro).
Con le parole di questo salmo io cercavo di dare a lei le parole che non poteva più pronunciare e che, ne ero certo, rispecchiavano quanto ancora di sentimento restava del suo animo.
Speravo che pregasse lei per mezzo mio.
Distogli il tuo sguardo, perché io respiri, prima di andarmene e scomparire.
Ecco la richiesta: Signore, lasciami. Preghiera paradossale quella di chiedere al donatore della vita di allontanarsi dalla nostra vita, di lasciarci in un vuoto silenzioso.
Ma è infine una richiesta pregata, un ultimo desiderio che, in questa forma, è rivolto a Dio. Pregando con queste parole, proclamando fede e speranza in una tonalità affettiva che pure le smentiva, ho capito come anche questa solitudine sia un momento della fede. C’è fede anche quando il senso della vita illanguidisce ed è confuso nella nostra mente e nel cuore.
Da questa esperienza e da questo salmo ho imparato che la vita del credente è sempre rivolta a Dio, e che questo dialogo con lui non avviene solo nella forza della gioia, oppure, all’opposto, nella forza del dolore, ma anche in quelle regioni che non sono di gioia né di dolore, quando il nostro respiro in quei momenti non è più intenso e pieno.
La mia conversione è stata rendermi conto che anche questi mondi appartengono alla storia della mia fede e sono presenti nell’infinito intreccio di fili della parola di Dio.